Il cardine della poetica di Aurelio
Bruni è la memoria: quella funzione della mente capace di
far riaffiorare – visivamente nel caso dei pittori –
l’esperienza passata attraverso le quattro fasi di memorizzazione,
ritenzione, richiamo e riconoscimento. D’altronde la facoltà
regolatrice dei ricordi è da sempre legata all’Arte,
visto che secondo la mitologia classica Mnemosine, personificazione
della Memoria, figlia di Urano (il Cielo) e di Gaia (la Terra),
in amorosa unione con Zeus concepì le nove Muse: divinità
tutelari della poesia e delle arti, abituali accompagnatrici di
Apollo.
Proprio nell’esercizio della memoria la maniera di Bruni si
indirizza verso la “pittura da museo”, volta al recupero
dell’idioma classico e della più aulica tradizione
figurativa, che non sono considerati sterili repertori di modelli
iconografici, ma costituiscono un modus vivendi e soprattutto un
lessico in grado di raccontare anche gli episodi del presente. De
Chirico, all’inizio degli anni Cinquanta del Novecento, dopo
l’esperienza metafisica, fu uno dei primi artisti a tracciare
la strada verso la pittura “impregnata di museo”, insistendo
sulla tecnica, sulla “bella maniera” e sull’assoluta
fedeltà oggettiva delle immagini. La sua era una pittura
fatta “con la mano destra” - era solito dire - cioè
quella propensa al realismo, edotta dal mestiere. Il desiderio di
declinare al presente la lezione dei maestri del passato è
stato avvertito anche da un gruppo di artisti che tra la fine degli
anni Settanta e l’inizio del decennio successivo dai critici
sono stati definiti Ipermanieristi, Pittori colti, Anacronisti,
Nuovi Nuovi, a seconda delle peculiarità stilistiche di ciascuno.
Incurante delle differenti etichettature e senza avvertire il bisogno
di sentirsi identificato con l’appartenenza ad un determinato
movimento, in quegli stessi anni Aurelio Bruni definiva la sua ricerca
sviluppando un personale linguaggio espressivo, fedele al culto
della bellezza concepita in termini classici. Parallelamente avviava
la sua attività espositiva allestendo una personale presso
la Galleria Chariot di Roma.
Bruni sceglie la via maestra del realismo, ma la sua non è
una narrazione verista. Egli impugna gli strumenti del mito e della
fantasia di matrice romantica per sfuggire e trasfigurare la realtà
contingente: a volte banale, volgare, in altri casi tragica, ma
pur sempre deludente. I suoi lavori si popolano allora di antichi
Dèi o di eroi somiglianti ai protagonisti delle saghe nordiche.
Saccheggia il repertorio della Storia dell’arte. I suoi pensieri
si materializzano come figure. Nella sua mente si associano e contrappongono
immagini, che si trasformano in iconografie. Iconografie tradotte
sulla tela, velate di eroiche malinconie, di amorosi languori, spinte
idealizzanti, religiose aspirazioni.
Un tema a lui caro è quello della Natura morta, trattato
autonomamente o inserito in composizioni più ampie, mantiene
l’usuale significato di memento mori e di moraleggiante ammonimento
sulla vanitas, sulla caducità della vita. Tuttavia Bruni
vi aggiunge una personale peculiarità iconografica: dei fili,
di lunghezza, consistenza e colori variabili, ma ben evidenti per
le accese cromie. Un significativo esempio è dato dalla Composizione
con Ratto di Proserpina, fulgido omaggio al genio barocco di Bernini
e alla pittura rinascimentale fiamminga per il motivo dell’interno-esterno
e il realismo lenticolare del paesaggio descritto con una prospettiva
“a volo d’uccello”. Gli spaghi colorati o le sottili
corde si annodano agli oggetti, s’intrecciano, creano aeree
forme, a volte sembrano lacerti abbandonati da un sarto distratto,
in altri casi spariscono dentro le cavità dei muri sbreccati
o dietro pesanti tendaggi. Che siano una dotta allusione al filo
d’Arianna, necessario per districarsi tra i meandri dei ricordi?
Oppure un segno da intendersi come persistenza visiva di un gesto?
Il virtuosismo stilistico di Bruni è tale da riuscire a descrivere
nei minimi dettagli la consistenza materica degli elementi raffigurati,
suggerendone persino le sensazioni tattili-visive: le superfici
fredde e finemente polite dei marmi scolpiti, le bucce rugose degli
agrumi contrapposte a quelle lisce e lucenti delle mele, gli effetti
serici dei broccati, le consunte pagine di un polveroso libro, la
scintillante luminosità dell’oro o dei metalli, la
lucentezza diafana dell’acqua e delle lacrime, le voluminose
morbidezze dei capelli, la trasparenza dei vetri sui quali si riflettono
gli oggetti. Una simile maniera dimostra chiaramente la forte fascinazione
esercitata dai capolavori di Caravaggio. Il realismo, ma soprattutto
il “tenebrismo”, ovvero quelle nette lame di luce direzionate
che fendono l’oscurità per definire le volumetrie degli
oggetti e farli emergere dal buio, rinviano al genio rivoluzionario
del Merisi. Michelangelo Merisi da Caravaggio, osteggiato per il
suo modo di dipingere avulso da ogni idealizzazione accademica,
considerato un eresiarca, un attentatore della “bella maniera”,
“l’assassino della pittura” - sentenziò
Poussin -, di certo non si sarebbe mai aspettato che secoli dopo
la sua morte un pittore ispirato dalla sua maniera sarebbe stato
definito accademico e classicista. Di certo l’Arte è
figlia del suo tempo ed espressione della società che l’ha
prodotta. Ma a causa di quei “corsi e ricorsi” storici
di vichiana memoria, stilemi e gusti ritornano ciclicamente nel
panorama della creazione artistica. In questo nostro complesso e,
diciamolo pure, assurdo tempo, erede della Post Modernità,
o sua ultima propaggine, convivono effimere tendenze, modi e poetiche
assai dissimili fra loro, non di rado urlati e mercificati come
slogan pubblicitari. Ebbene in questo momento storico si registra
un crescente interesse verso la pittura d’immagine, a mia
avviso considerata un valore irrinunciabile.
Il pittore umbro non ha timore nel dimostrare l’eccellenza
del suo magistero tecnico. Egli è un “pictor classicus”
– mutuando l’autodefinizione di De Chirico – che
intende la classicità come perfezione dell’immagine
ed esecuzione impeccabile. Il suo “ritorno al museo”
non è freddamente cerebrale, bensì partecipato emotivamente
con pathos. Miti, leggende, personaggi reali o fantastici, eroi
della fede cristiana, vivono con la stessa intensità nei
suoi quadri. Bruni richiede ai sui spettatori un coinvolgimento
intellettivo e d’animo. Egli dispensa suggestioni; descrive
con lucidità cristallina gli oggetti che ci circondano, ma
anche quelle realtà oniriche che impressionano la retina
e fanno sussultare l’animo.
Nei paesaggi, immersi in un tempo metastorico, domina un senso panico
della natura, intesa variabilmente come madre-matrigna. Ad agresti
vedute paesaggistiche si contrappongono, infatti, impervi e desolati
scenari rocciosi, come le stalagmitiche montagne che fanno da maestoso
fondale alla rovinosa Caduta di Icaro.
Nei ritratti l’artista infonde ai personaggi rappresentati
un’aura mitica, che a volte raggiunge persino intonazioni
epiche. Al contrario, affrontando le tematiche religiose umanizza
i santi, senza intaccarne la grandezza e la forza spirituale. Chiara,
ad esempio, è colta nel momento più intenso e drammatico
della sua vicenda terrena: l’ombra del crocifisso, unico elemento
sacro, si staglia appena in un angolo sulla parete di fondo alla
luce di un nuovo giorno, quando, dopo una notte insonne, la giovane
donna impugna le forbici e si sente pronta a tagliare i lunghi capelli
quale segno di rinuncia ai beni materiali. Così il Serafico
di Assisi, Francesco, si commuove fino alle lacrime ringraziando
l’Eterno per il pane quotidiano da condividere con i fratelli.
Girolamo è raffigurato con i consueti attributi iconografici
imposti dalla secolare tradizione: il leone, unico compagno nel
deserto, è immaginato da Bruni come un rilievo lapideo; il
teschio (memento mori) che sorregge la Bibbia tradotta dal santo
anacoreta; la pietra penitenziale; il cappello purpureo emblema
della dignità cardinalizia riconosciutagli dalla Chiesa.
L’umana espressione del suo volto è sublimata dall’intensità
trascendentale dello sguardo. Quella stessa intensità risplendente
negli occhi di Mosè mentre si allontana dalla terra d’Egitto.
Bruni adotta in questi casi un realismo fotografico. Nella ritrattistica
si concentra sulla registrazione fedele e minuziosa delle fisionomie,
ma la sua acuta indagine si spinge fino all’analisi introspettiva
e psicologica, affidando alla descrizione di un gesto o all’inserimento
di un elemento iconografico il compito di svelare l’Io dei
protagonisti. Una menzione particolare meritano gli autoritratti.
Nell’Autoritratto con copricapo, fiero di sé, si mostra
dietro un parapetto marmoreo sul quale è appoggiato un cartiglio
spiegazzato – come nella migliore tradizione del Rinascimento
d’oltralpe – e indossa un turbante intessuto con fili
colorati e luce, che costituisce un brano pittoricamente straordinario.
In maniera analoga ne L’uomo che legge descrive il copricapo
dai riflessi argentei, ma l’attenzione è rapita sia
dalla natura morta di stoffe e cuscini disposti in un mirabile scorcio
prospettico, sia dai profondi passaggi chiaroscurali che plasmano
le forme accarezzandole. In altri casi l’autore s’immagina
come una Sentinella nel deserto, ultimo e solitario custode di ataviche
tradizioni; come un guerriero che si sta trasformando in statua
marmorea mediante una lenta ma inesorabile metamorfosi; oppure come
un uomo immerso in una solinga meditazione, o commediante di questo
gran teatro del mondo con indosso una maschera spezzata.
Poliedrico, raffinato e sensibile, solitario, riflessivo e fecondo
è l’animo di Aurelio Bruni, nutrito dallo splendore
dell’arte e dall’armonia della musica. Con il coraggio
della coerenza l’artista persegue la propria ricerca espressiva
per offrire una possibile chiave di lettura della realtà.
Egli è figlio del suo tempo. Non può essere considerato
anacronistico saper sottrarre forme e sintagmi dalle epoche passate
per suggerire un senso da dare a questo multiforme e travagliato
presente.
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